ROBERTO FERRI IL VISIONARIO, di Marco Bussagli

“Si valse assai de’ naturali, non avendone carestia per l’abbondanza dei tanti giovani ed allievi…”. Con queste parole, Cesare Malvasia, l’amico e biografo di Guido Reni, descriveva in breve quale fosse il metodo di lavoro del maestro emiliano che, spesso e volentieri, utilizzava per le sue opere modelli presi dalla strada, o dalla nutrita schiera dei suoi allievi. Fatta salva quest’ultima informazione, la frase si adatta perfettamente anche alla sontuosa pittura di Roberto Ferri, troppo giovane per avere schiere di allievi, ma attento almeno quanto il grande pittore barocco alle problematiche dell’anatomia umana ed alla sua resa pittorica. Uscito dalle fila dell’Accademia di Belle Arti di Roma, Ferri si fece già notare fra i cavalletti di quella Scuola, suscitando oltretutto polemiche in quella schiera di colleghi e professori che consideravano la frequentazione della figura una sorta di relitto di epoche remote. Al contrario, lo studio approfondito della figura umana, che egli possiede pienamente nella pienezza del suo pennello e dei suoi colori, è un imprescindibile punto di partenza anche per coloro che vogliano affrontare con serietà gli itinerari di quella che, con termine obsoleto e generico, viene chiamata “pittura astratta”. Tutto questo senza contare che buona parte dell’arte del Novecento ruota intorno alla figura, partendo proprio dalla rivisitazione che ne fecero le Avanguardie Storiche, ad iniziare dai Fauves e dagli Espressionisti tedeschi per poi continuare con il Futurismo, di cui quest’anno ricorre il centenario, ed arrivare fino alla body art e ai ritratti di Bill Viola.

Si dirà, allora, che lo stile di Roberto Ferri è “vecchio”, ispirato a Caravaggio e ai suoi accoliti più o meno diretti, come Bartolomeo Manfredi, che al pittore lombardo rubò la maniera diffondendola in tutta Europa? Nella pittura di Ferri non c’è solo il Seicento italiano di Michelangelo Merisi o Guido Reni. L’artista pugliese, da contemporaneo quale è, si porta dietro il retaggio del Surrealismo di Dalì, del fantasy dei fumetti, dei film di fantascienza come Alien, e guarda alle esperienze visive di David Lachapelle. Tutto questo è Roberto Ferri, che pure non privilegia nessuna di queste cose, ma le fonde nel crogiuolo dell’animo suo e le esprime in una pittura costruita con un paziente lavoro artigianale. Parte dai modelli. Li sceglie accuratamente come un regista, come faceva Guido Reni o fa Lachapelle, perché ognuno possa interpretare al meglio il proprio ruolo. Così, buona parte delle figure concepite per le sue tele, sono personaggi veri; e di qualcuno, come Urano, si può conoscere nome e cognome, indirizzo e numero di telefono. Delle belle foto si dirà allora, i quadri di Roberto Ferri? Per nulla! Perché quando il modello in carne ed ossa, varca la soglia della tela, ed entra nel mondo visionario del pittore, cambia completamente e si trasforma in un’entità diversa che, però, per quanto allegorica possa essere, ha la concretezza e la bellezza di un’anatomia fatta di sangue e di muscoli, di pelle e di pelo, di vita e d’energia.

La capacità di resa del corpo umano, maschile e femminile, da parte dell’artista tarantino, è straordinaria dal punto di vista tecnico; originale e mai banale dal punto di vista narrativo. Ferri, infatti, sa passare dalla perfetta resa anatomica della figura alla deformazione calcolata e pensata per essere funzionale al racconto nella quale, però, non viene mai meno la verosimiglianza. Un’opera come Ade che fonde insieme il corpo macilento di Plutone (nome latino di Ade) e la turgida bellezza di Persefone (corrispettivo greco della romana Proserpina), spiega come, di fatto, il mondo oscuro e ctonio altro non sia che l’aspetto nascosto di quello solare e diurno. Non sembra un caso che il volto del sovrano dell’Averno sia in piena luce, una luce impietosa che sottolinea la sua rubizza vecchiezza, mentre quello di Persefone coperto dall’ombra, un’ombra che ruba la bellezza degli occhi e condanna la sposa rapita al buio. Per questo, i due coniugi sono una sola carne, un solo corpo che si fonde insieme. La deformazione anatomica è, per Roberto Ferri, una forma espressiva che aggiunge, in modo icastico, valore a concetti che altrimenti sarebbero banali, come nel caso dell’Adoratio Mortis. Qui il giovane corpo di un personaggio tormentato si sublima in un volto sfigurato dalla ‘lebbra’ di Bacon che, così, spiega la causa di tutto quello strazio.

Per questo, in Vizio e Virtù l’artista utilizza il medesimo codice linguistico per contrapporre la bellezza di Lei al dolore di Lui. Una Lei che ha significativamente tre braccia. Ricordiamo Sant’Agostino e San Tommaso che spiegano come la Grazia (Virtù) divina si espliciti in tre fasi, giacché prende, riceve e restituisce quel che ha preso maggiorato dalla Grazia. Sono queste tre fasi, come le braccia della figura che, con grazia compunta, trafigge un Lui il cui volto si deforma come la pelle floscia del San Bartolomeo del Michelangelo sistino. Il Vizio è sconfitto; ma in questo confronto scontato, anche la Grazia perde un poco della propria imperturbabilità e si corruccia nell’ombra del proprio sguardo basso. Non diversamente, Gea, la Terra che poggia i piedi su un segno misterioso scolpito nella roccia, ha quattro braccia come ad indicare i quattro angoli del mondo, i quattro punti cardinali che segnano lo spazio. Con due si tiene il capo e la bella chioma dai capelli rossi, e con le altre tiene un Amuleto, che è l’altro titolo del quadro.

Ferri conosce così bene il corpo umano e i segreti della sua rappresentazione, che può permettersi il lusso di forzare la mano per aggiungere significato e suggestione, per reinventare la figura ed osservarla attraverso i suoi occhi di artista visionario. È quel che accade con una delle sue ultime monumentali fatiche: Le delizie infrante. Un quadro che nasce dalla casualità dell’accidente, dall’occasione incresciosa della ferita al dito di un bambino il quale, seduto sul nulla, si punge mentre giocherella con il gambo di una rosa. È un tema antico questo, e subito viene in mente il mito di Adone e il mirabile putto di Tiziano che mescola l’acqua nel sarcofago-fontana dell’Amor sacro e Amor profano, nonché la favola morale del Fanciullo morso dal ramarro di Caravaggio. L’opera di Ferri, però, prende tutt’altra piega, perché se si allarga lo sguardo all’immenso spazio che sovrasta il bambino, si vedrà la tela popolata di figure sensuali e tormentate, uscite dal libro stracciato dell’Incubo di Füssli o dalla ragione assopita della mente di Goya che genera mostri. Due centauri ai lati trainano un carro che non esiste, mentre dai loro corpi di cavallo fuoriescono serpenti e scarafaggi. In mezzo, fanciulle e belve s’intrecciano, giovani si accoppiano e si sodomizzano. La luce e il buio: le fiammelle della lampada ad olio tenuta da una procace fanciulla e la benda sugli occhi di un giovane con le ali sono i tormentati protagonisti di questo groviglio di corpi che, nel dolore della puntura, trova l’intima e complessa trama della follia della vita. Dunque corpo come linguaggio, come ulteriore forma d’espressione che non è solo un saper imitare la natura con capacità e maestria, ma è la volontà di utilizzarlo come valore aggiunto per descrivere quello che altrimenti rimarrebbe chiuso nel bozzolo delle parole.

Così Eros Anteros non è il semplice recupero della mitologia di Cupido, ma è una riflessione profonda sulle sfaccettature dell’Amore, della sensualità e delle sue perversioni. Visto di terga, il giovane dio alato ha l’ambiguità sensuale dell’ombra nella quale è immerso. Un viso d’adolescente con la prima peluria della barba, sormonta il corpo e le pelvi tornite di una vergine il cui sesso è così schiacciato fra le cosce, che si fatica a dire se appartenga ad un maschio o ad una femmina. Del resto, l’Amore travolge indifferentemente uomini e donne, trafigge e lega. Per questo Eros (e il suo contrario, Anteros) ha un piede trapassato da una lancia (che, con l’occasione, infilza anche un giglio, il cui candore è sporcato da rivoli di sangue (proprio come accade alle fanciulle in fiore), e l’altro legato all’alluce da una catena. La catena dei sensi che soggioga e stordisce senza lasciare scampo. È allora questo il mondo figurato e visionario di Roberto Ferri, artigiano dell’anima che intinge il pennello nello scovolino dei sentimenti, dei desideri, dei tormenti e dipinge con il colore delle debolezze umane. Debolezze che si distendono sulla tavolozza del corpo. Un corpo deformato dalla fatica di esistere, perché bisogna ricordarsi che vivere è una brutta malattia… Vivere fa malissimo; tanto è vero che si muore.

Marco Bussagli