ELEGIACO CANTORE DI UN UNIVERSO VISIVO, di Claudio Strinati

Roberto Ferri si è già da tempo segnalato come un artista drasticamente orientato su scelte figurative di nitida e lucidissima evidenza, di nobile e raffinata ispirazione, con ampio spettro di riferimenti al passato glorioso dell’ arte italiana e non solo italiana attraverso un interessante sovraccarico di echi soprattutto seicenteschi. L’ evidenza assoluta delle forme, la tornitura perfetta dei corpi, l’ insistita attenzione per aspetti talvolta estatici, talvolta foschi e tenebrosi, talvolta languidi, ne dimostrano l’ adesione verso un ideale figurativo che trae indubbiamente le sue origini dal pieno Barocco italiano. In tal senso Ferri si direbbe inquadrabile in una linea di tendenza che, senza costituire un vero e proprio movimento, è presente in Italia dagli anni settanta del Novecento e che ha visto e vede operosi artisti grandi e grandissimi accanto a artisti mediocri se non irrilevanti. Tuttavia Ferri è artista alieno da qualunque coinvolgimento in una direzione teoretica precisa e accademicamente definibile.

E’ pittore che può certamente essere accostato a esperienze più o meno recenti di altri, ma fa sostanzialmente “parte per se stesso” e come tale va visto e giudicato. Ciò non toglie che certi accostamenti siano legittimi e aiutino a comprendere meglio il senso profondo del suo fare. E’, in sostanza, il destino di quell’ orientamento che si può far risalire fino alle meditazioni di Giorgio de Chirico ( un maestro talvolta citato in rapporto a Ferri) tra la fine degli anni venti e l’ inizio degli anno trenta, a proposito del recupero della eccelsa tecnica seicentesca che sembrò al “pictor optimus” un punto di arrivo insuperabilie per tutta la storia dell’ arte europea e che avrebbe quindi ben potuto essere ripresa da chi fosse stato in grado di coglierne il senso profondo. E indubbiamente tra queste postulazioni dechirichiane e la moderna arte di Roberto Ferri un qualche rapporto c’è anche se non è esattamente questo l’ orientamento di Ferri, di cui è stata notata invece una volontà di fermo distacco dal passato pur in un clima rievocativo o, meglio, evocativo di una stagione gloriosa e rispettata profondamente. Peraltro non era questo neppure l’ orientamento vero ed esclusivo di de Chirico stesso. Basti pensare, infatti, alle sue elette ed evidenti citazioni da Renoir proprio nel momento dell’ appassionato culto seicentesco. E proprio qui si potrebbe, appunto, ravvisare un avvicinamento tra la venerata esperienza dechirichiana e le idee di un così fervido artista nostro contemporaneo come Ferri, appunto nel segno della continuità conseguita da entrambi gli artisti, ancorchè sulla base di presupposti diversi e di acquisizioni diverse, ma tenendo ben fermo quel principio di coinvolgimento e venerazione verso un passato che resta presente nelle coscienze e funge da stimolo continuo alla creatività. Ferri arriva a suo modo a questo tipo di pittura, così carico di evidenza e estenuazione insieme, ma transitando comunque attraverso l’ Ottocento.

Un suo artista di riferimento è, come è ben noto, Bougereau, una sorta di “metafisico ante litteram”, pittore di qualità suprema e ricco di ambivalenze segrete sul piano espressivo, tanto da non ammettere una facile e immediata decifrazione delle sue intenzioni più intime e autentiche. Ciò detto è imprescindibile per Ferri il riferimento al naturalismo seicentesco che nel nome del Caravaggio trova una specie di simbolo universale che ha colpito le menti e l’ immaginazione di molti e ancora oggi colpisce un’ anima sensibile e fine come quella di Ferri. Ma il “caravaggismo” di Ferri sembra scaturire più che da un rapporto diretto con la grande fonte antica, dalla rilettura del Caravaggio operata nell’ ambito del neoclassicismo francese da pittori come David ( soprattutto) e Ingres. E’ da quel punto di osservazione che l’ arte sottile di Ferri nasce e si sviluppa, e da quel punto di osservazione meglio si comprendono lo stato d’ animo del pittore e il suo orizzonte creativo. I titoli delle opere, attentamente meditati dall’ autore, dicono molto sul tema della “malinconia” e del “male” cui l’ artista dedica tanta attenzione e totale coinvolgimento. Ma i due termini non sono affatto inevitabilmente dipendenti l’ uno dall’ altro. E’ l’ artista che talora li sovrappone e li elabora poi dialetticamente. La dimensione della “nigredo” e quindi della Melanconia, infatti, non è assolutamente quella stessa del male e del “requiem”. L’ una è l’ elegia, l’ altra la tragedia. Può sembrare una sottile distinzione ma va presa nel suo giusto verso perché Ferri, in definitiva, non è un artista da affrontare attraverso sfumature troppo sottili. Anzi è diretto e la sua volontà di colpire al cuore l’ osservatore non gli consente di porsi quale distillatore di quintessenzae. In questa dialettica inquieta gioca un ruolo essenziale la questione del “peso dei corpi”. Ferri, in parte ispirandosi al Seicento in parte rimeditando forse aspetti fondamentali delle poetiche primonovecentesche soprattutto dannunziane ( come, per fare un solo emblematico esempio, nel caso di Giulio Aristide Sartorio) pone al centro del suo lavoro la rappresentazione del “peso del corpo”. La densità della stesura e l’ evidenza con cui il maestro descrive il concetto stesso della rappresentazione, sono volte al fine principale di farci percepire l’ arrivo dei corpi sul quadro realizzato quasi fosse un arrivo dall’ iperurano, come è stato peraltro autorevolmente detto sul suo conto.

Così le figurazioni piombano sull’ osservatore e viene pienamente giustificata quella sensazione da “sabba delle streghe” che circola insistentemente in tanti suoi lavori, persino in quelli esplicitamente sacri, elaborati, del resto, con estremo scupolo verso le esigenze della committenza. Sovente questi nudi, maschili o femminili, sono dipinti come evidentemente minacciati dal logoramento, dalle ferite, dalle escrescenze mostuose che sembrano prodursi nella purezza adamantina dei corpi con un’ ottica che non è certo immune dalle suggestioni dell’ “horror” cinematografico, pur nel costante riferimento caravaggesco e, si potrebbe aggiungere qui, riberesco quando il nostro giovane maestro ingaggia la sua sfida rispetto alla rappresentazione di corpi anziani e quasi oltraggiati dal trascorrere implacabile del tempo. Questa complessa componente in Ferri c’è e si sviluppa nelle opere compiute ( ma sovente anche negli studi disegnati preliminari) dove troviamo grande autonomia di espressione e forza esasperata nel dominio dell’ espandersi delle forma quasi che una determinazione inconscia premesse all’ interno del razionale esplicitarsi dell’ intenzione creativa dell’ autore. Attrazione e Repulsione sono, quindi, due poli dialettici del suo fare arte e i due termini sono sempre presenti nelle sue elaborazioni. Ferri, alla fin fine, non è disturbante e non è rassicurante, ma immette nelle sue opere una energia inquieta e impetuosa che seduce l’ osservatore convincendolo pienamente della forza vitale delle opere ma tenendolo anche come a distanza, per il timore di scoprire nella perfezione quasi ostentata della materia i segnali di un perturbante che aggredisce la materia stessa e mira a rovesciare la percezione, da lieta a angosciata, da compiaciuta a preoccupata.

Questo deriva dall’ approccio generale che Ferri ha con le sue stesse immagini. Le spinge, allora, su un piano avanzato e tormentato di perfezione esecutiva dando a chi guarda l’ idea di una precisissima e lenticolare attitudine a riattivare un mondo di belleza e di seduzione che per molti era come irrimediabilmente perduto. Poi, però, quando l’ immagine è giunta al suo livello massimo di evidenza e efficacia, sembra aggredirla lui stesso, corroderla, estrarne l’ altro da sé, una componente malata e “malvagia” che si impone quasi fosse ineliminabile. E’ costante in lui l’ idea della figura che si libra o cerca di librarsi in volo e, all’ opposto , della figura che precipita come fosse condizionata dalla sua stessa fisicità. E’ appunto quel nodo inestricabile di melanconia e di negativo che urge dentro la forma realizzata. Una “vitalità del negativo” ( per evocare un antico, bellissimo titolo riferito a ben altri fenomeni di molti anni fa) preme dentro quella che potremmo chiamare, a contrapposizione, l’ “estenuazione del positivo” che Ferri rappresenta con tanta energia e tanta determinazione. Ferri è ben consapevole, del resto, delle forti emozioni che promanano dalle sue opere ma Fabio Isman, discorrendo di lui qualche anno fa, ribadiva la positività e la profonda religiosità di un artista che ama la musica rock e la danza, da cui trae spunti poderosi alla sua creatività e che, nel contempo, ha ben in evidenza nella sua biblioteca, ideale e reale, Baudelaire e Pirandello. Un uomo del nostro tempo, dunque, che ragiona in un’ottica non tanto antica quanto ancestrale, elegiaco cantore di un universo visivo che confina con la dimensione del sogno e, nel contempo, racconta una realtà impossibile e non visibile se non con gli occhi della pittura.

Claudio Strinati