DYONISO IN ARCADIA, di Maurizio Marini
La pittura di Roberto Ferri non è legata alla realtà contingente, anzi, ne è per lo più avulsa. L’occhio impietoso di Ferri, infatti, non si ferma sulle epidermidi (sia pur setose e morbide quelle femminili, virilmente muscolose quelle maschili); ma le scava e ricava dall’ombra, come uno scandaglio psichico penetrante dell’anima. Il suo amore per l’antico non si spinge alla contraffazione dei grandi del passato; l’emozione potrebbe giustificarlo, ma egli vuole trovare la grande pittura della Storia all’interno della sua anima d’artista.
È il suo pennello ad esplorare un mondo nascosto e inquieto, assetato di quella magia che è illusione di verità e realtà della finzione; vale a dire di quel sortilegio acronico che è alla base di ogni arte. Come un Dyoniso ebbro, egli cerca nell’ebbrezza della pittura il tramite per varcare il confine tra la realtà e il sogno, tra il fluire del tempo e l’eternità metafisica.
Il suo Dyoniso trasportato dal vino in una dimensione fantastica crede così di essere penetrato in uno spazio dove tutto diventa possibile. Infatti, agli Arcadi, discendenti di Zeus, era stato dato di trasformare il grano in pane, e la lana monocroma delle pecore in vesti colorate. Ferri trova, in tal modo, l’essenza di un colore aspro e drammatico, seducente quanto improbabile nella realtà di tutti i giorni. La sua mente insegue il mondo che si trova davanti, per dargli corpo in forma di pittura. Come non credere al groviglio di corpi volanti, aggraziati, quasi angelici, che dominano Le delizie infrante: Eros e Thanatos, Icaro e Chirone, la chioma avvelenata coi serpi di Medusa, tutto cerca la solidità della vita oltre l’apparente contraddizione della morte. La morte non esiste in Arcadia; ma, forse, la morte non esiste in assoluto. La stessa morte è parafrasi della vita, sia in un mondo migliore che nel disfacimento dei corpi terreni.
Magia e seduzione, sono, s’è detto, i denominatori comuni sottintesi dal misticismo e dal delirio. Dyoniso-Bacco è divinità che resuscita ed è l’equivalente mitologico di Cristo e, come questi, è salvifico: salva Arianna abbandonata a morte certa da Teseo, un eroe umano, e la porta nell’Olimpo facendone la sua sposa, quindi una divinità e una costellazione. Il Dyoniso di Ferri è dentro la sua anima e i suoi pensieri; ma emerge sulla tela, in superficie, assumendo forma e valenza d’immagine libera da ogni remora: una resurrezione che è una metempsicosi quale immagine del Peccato aggraziato come una étoile, oppure seduzione angelica di una maternità ferita, col putto che precipita da una catena alla quale si è aggrappato come un funambolo. In altre forme si materializza come un metamorfico Tritone, carne dalla pietra di Gianlorenzo Bernini, ossia la stessa metamorfosi che l’induce a farne un Guerriero morente (anche se è la stessa cosa in altri termini visivo-narrativi) dal berininiano San Sebastiano giovanile. Miti e incubi che si trovano come un Leit-motiv (tra Caravaggio e Bernini) nelle antinomie di figure di un possente onirismo: un onusto e cieco Crepuscolo del Mattino, sotto forme adolescenziali femminili inerti, in un angolo di giardino dove spiccano un’epigrafe e dei grappoli di glicini. Con uno stupefacente viraggio drammatico, finalmente, La Bellezza uccide il Tempo ribadendo il suo ruolo che eternamente si rinnova: la Bellezza non è ora, ma fu sempre! Ancora estasi di epidermidi calde, anche sotto un lume lunare, nel Giardino delle esperidi. Un giardino misterioso come un Labirinto, corpi in riposo apparente, ma, in realtà, in attesa di un eroe che li svegli da un Hypnos veramente sinonimo di Morte e di resurrezione, ma nell’ottica dell’Ovidio.
Quindi anche di quella metamorfosi che schiude il corpo femminile alla procreazione di un altro essere: un corpo lacerato e ferito, quale emerge da un “Vas Hermeticum” recando ramaglie coralline al posto del capo (come frutto del sangue di medusa), una salamandra e una mela nelle mani, alludendo alla Genesi dell’umanità come dolore nell’eterna metamorfosi di un parto. Pur se la salamandra resiste al fuoco, è sempre un rettile: emblema diabolico del serpe-satana, in rapporto con la mela-malum del Peccato d’origine.
Angosce, deliri, inquietudini della Psiche cui nessuno di noi si sottrae. Possiamo solo rimuoverli dal nostro conscio quotidiano: a Ferri il gusto e la sottile di riproporceli in termini di visione esistenziale, dall’implicita Adoratio Mortis al “tempus fugit” dell’Ossessione, della Perpetua e del Tempus Destruendi. Né l’acume in perenne scandaglio del Bene e del Male sottrae valenze alla narrazione: Eros e Thanatos si coniugano e si sostanziano sempre e comunque vicendevolmente, anche nell’ Empireo angelico. Angelo caduto, Angelo Infernico, Angelo Ferito, in un’ orgia dionisiaca di pasoliniano memoria , che trova speranza in un Eterno Addio: due corpi uniti in un bacio, l’essenza del maschile e del femminile, un’ala bianca striata di sangue per lui e una nera per lei, solo in due possono volare oltre lo spasimo della ferita.
Valgono pensieri di una Storia ciclica, che si ripete all’infinito. Gli dei di Ferri soffrono e palpitano di sensi e sentimenti: un classico Centauro Chirone scopre L’Alchimia del Dolore così come è partecipe della Giostra dei Rimpianti sulla memoria di Euripide. Una Natura che non rinuncia anche nell’astrazione mentale ai suoi contenuti religiosi, sacri o mitici che siano, ancora un angelo che trasporta in cielo una figura femminile: Furit Aestus, ma una lunga catena sembra trattenerli alla terra; sconforto, terrore, angoscia e lussuriosa attrazione nel De Profundis e, ancor più, nell’erotismo che permea l’allegorica Babilonia (un esplicito omaggio, come nella Bellezza uccide il Tempo, alla più grande pittrice della storia, la vittima-carnefice Artemisia Gentileschi) . Ancora Euripide ci suggerisce che “quando nella Natura non vedrai più il Sacro tutto sarà finito” : sacra e sacrilega è la sua visione di Gea o L’ Amuleto , ma la concezione ferriana della pittura oltre l’anima e la mente si concretizza in due sublimi e liriche immagini al limite del blasfemo, il Dyoniso, che in groppa a un capro (tra panico e demoniaco) si diletta col proprio tyrso (un ripensamento sul classico Fauno dormiente restaurato di Bernini) e, soprattutto, Gesù-Dyoniso all’interno dell’Ultima Cena tra gli apostoli-satiri, nella metamorfosi del vino, da quello profano del “ Vecchio Patto”, in quello eucaristico del “Nuovo Patto” cristiano.
Maurizio Marini