COME NASCE UN’ARTE, di Fabio Isman

Nella casa di Sutri, tre locali senza pretese ma con uno splendido panorama, ci sono 48 suoi quadri sparsi dappertutto; pochi rovesciati: con la faccia dipinta della tela che guarda al muro; «ma quella botola sul pavimento, ne nasconde un’altra ventina: come quelle collocate, diciamo, di spalle per terra, e che non voglio vedere, sotto ci sono le opere che ho lasciato a metà, non ho concluso. Per qualche problema tecnico: ad un tratto, magari, la soluzione scelta mi è parsa vecchia, antiquata, l’ho sentita come sorpassata; o perché la composizione non mi è sembrata più risolvibile: all’improvviso, non l’ho sentita mia, non mi andava di completarla. E ogni quadro non finito, lo vivo come una sconfitta personale». Roberto Ferri non si fa sconti: ama troppo la pittura per tentare scorciatoie. Dipingere è la sua vita: non un hobby, non un passatempo, non il lavoro. Lo è sempre stato; da quando, «avevo 10 anni, nonno Italo mi ha regalato la prima cassetta di colori a olio, con i pennelli di setola. Ma io gli rubavo i suoi, di pelo di bue, perché erano più morbidi». Forse, la vocazione è divampata lì: totale e completa; irresistibile quanto lo è ogni chiamata autentica. Docilmente, e allo stesso tempo caparbiamente, lui l’ha subito assecondata: appena terminato il Liceo artistico, e iniziati gli studi di pittura da autodidatta, senza maestri, ha lasciato il natio borgo alla periferia di Taranto, e si è trasferito a Roma. Facendosi emigrante nel nome dell’arte. Per conto della propria vocazione, si è spedito lontano da solo: perché soltanto altrove, ed egli lo “sentiva”, essa si poteva sviluppare.

All’inizio, la vita non gli era certamente facile. «Io facevo già delle scenografie per qualche locale, per alcuni pub; e sapevo che all’Accademia di Belle Arti di Roma insegnava Gaetano Castelli, un maestro riconosciuto del settore; non ho avuto dubbi». Non gli bastava più d’essere capace di disegnare senza che alcuno gli avesse spiegato come fare; non gli bastava più d’ispirarsi a un’Enciclopedia dell’arte in dieci volumi, dono di uno zio pittore, da cui copiare continuamente gli antichi capolavori, specie se di Caravaggio, o di Velázquez. Oggi, Castelli non insegna più; ha realizzato decine di scenografie famose, da tanti Festival di Sanremo in poi; dice: «Non ho mai trovato qualcuno con le sue straordinarie capacità tecniche». Specie rispetto al Sud in cui si è nati e cresciuti, che è più protettivo, circoscritto, avvolgente, Roma non è una città facile. Talora, è addirittura un mostro che sa divorare. Roberto se ne accorge presto: «Sutri è a mia misura; non potrei mai vivere in città, o lavorare nella Capitale, che è anche una capitale di confusione e di caos».

Trova subito quel suo particolarissimo modo di dipingere, cui resta fedele. È la reinterpretazione del classico. Lo scontrarsi d’incessanti opposti: l’amore e la morte, la passione e la consunzione, il sacro e il profano. Il miscelare secoli diversi, in una epifania della bellezza. L’incessante avviluppo dei corpi che travalicano la sessualità, e spesso mostrano il volto oscuro di ciascuno tra noi. Un inno eterno alla nudità: un Michelangelo, un Guercino, un Guido Reni (non meno “divino”), però d’oggi. La tensione delle carne che diventa un afflato dell’animo. E sono scene autentiche, che gli scaturiscono dal profondo: non puri infingimenti o costruzioni posticce, artefatte oppure gratuite. Se scomodiamo Theodor Adorno (Minima Moralia), costituiscono altrettante «magie liberate dalla menzogna di essere verità». Qualcuno storce il naso: dipinge come gli antichi, talora sembra perfino fuori dal proprio tempo; senza pensare che la storia dell’arte è composta di infiniti revivals, un’incessante reinterpretazione di stilemi il più delle volte abbastanza immutabili. Dice Foscolo: «L’arte non consiste nel rappresentare cose nuove, ma nel rappresentare con novità». Lo stile di Ferri è assolutamente personale, riconoscibile, autentico: il frutto di tanti sperimenti; sempre rigoroso con se stesso e, nel panorama di oggi, abbastanza unico. Se proprio bisogna cercargli qualche antecedente, occorre probabilmente risalire a un Riccardo Tommasi Ferroni (1934 – 2000), ma meno patinato e assai più veritiero; ma dubito che Ferri ne abbia studiato l’opera.

Roberto lo conosco bene, da quasi dieci anni. Era ancora un ragazzo, appena uscito dall’Accademia, e già stupiva. Gli metto in conto un mio raro innamoramento, per due quadri visti in una vetrina, che neppur conoscevo: per me, è cominciata così. Da allora, mi ha lasciato seguire ogni suo passo, ogni suo dubbio, addirittura qualche sua delusione: un paio di mercanti hanno venduto (e bene) le sue opere, ma, diciamo così, il giovamento più tangibile gli è stato abbondantemente negato. È lo scotto dei novizi, o dei puri: fin troppo portati ad avere fiducia. Però ho conosciuto anche le sue speranze, le idee; l’indagine, dentro se stesso e nel suo linguaggio, che non conosce pause. Certi quadri, mi ha confessato, gli appaiono in sogno: appena si sveglia, nel cuore della notte oppure la mattina dopo assai presto, «mi precipito ad annotarmi quelle idee, a disegnare subito un bozzetto». Requiem, opera tra le più impegnative, sette personaggi, due metri per lato, gli si è imposta alla mente mentre stava guidando verso Roma: «Mi sono fermato, ho preso il taccuino, e ne ho abbozzato uno schizzo con la penna biro, dieci centimetri di lato»; si vede e si ammira il gesto d’impulso, l’atto creativo, il magico e irripetibile istante in cui scocca l’invenzione. «Sono molto legato a questo quadro, perché rispecchia quasi pienamente quanto voglio raccontare. Dico quasi pienamente, perché la mia ricerca continua; e magari, tra uno o due anni, non sarà più così, e gli preferirò un altro dipinto».

Finora, avrà venduto forse duecento quadri; e «quando è stato possibile, ci ho tenuto a sapere dove fossero finiti: a conoscerne i proprietari, vedere dove li avevano appesi»; se per lui l’arte è la vita, i dipinti sono come dei figli: difficile separarsene. È lieto di sapere che qualcosa di quanto ha realizzato è finita anche lontano: in Qatar; a New York e Miami; nel Canada e nel Texas, a San Antonio; a Boston, Madrid, Malta, Londra e Dublino; nel Castello di Menerbes, in Provenza. In Francia, è andato: non tanto per consegnare i dipinti (quello era un pretesto), quanto per vedere dove e come venivano disposti. Ma il suo mondo è fatto anche di opere che non si possono cedere. Quella con cui, a poco più di trent’anni, è diventato uno tra i nomi della Biennale nel 2011, alle Corderie delle Vergini all’Arsenale, il suo gallerista di ora, Franco Senesi, l’ha rifiutata a una dozzina di richieste: «Non vuole separarsene». Un giorno, a Sutri, sono stato quasi rapito da un quadro bellissimo, sopra il letto, intitolato Nella morte avvinti: mi ha subito spiegato che «non lo venderò mai»; forse, perché è il primo ritratto della sua compagna; o perché, su una trave di marmo, lui ha scolpito (pardon: dipinto) dei versi composti da lei. Stavolta, si è almeno risolto a metterlo in mostra: finora, nemmeno questo. Analogo destino è capitato anche a una tra le sue prime tele, Amor volat undique, del 2004; ritrae un uomo e una donna, tanto per cambiare avvinghiati; lui li ha dipinti, se ne è innamorato forse più del solito, e non li ha più lasciati andare via: gli tengono ancora compagnia.

Adora i contrapposti e le sensazioni forti. I suoi personaggi amano e odiano. Le sue figure sono bellissime, ma spesso con un che di corrotto. Sovente, l’estasi finisce per mescolarsi al sangue. Sono il rapimento e il supplizio, l’ebbrezza e la pena. I suoi angeli hanno spesso le ali nere. Con i foschi pensieri, anche loschi animali possono essere in agguato. Più che con cuore, il suo amore fa spesso rima con la morte; e il cielo, tante volte, si sposa con l’inferno. Da qualche tempo, fa uso minore di una sua caratteristica abbastanza tipica e singolare; nei suoi dipinti, appaiono spesso (ma una volta di più) come delle “macchine nobili”: legate al tempo o allo spazio, possono essere ingranaggi di orologi, ruote dentate, sestanti, astrolabi, bilance, strani sostegni in ferro battuto, a forma di croce. Ferri spiega: «Costituiscono il prolungamento del pensiero e del desiderio nel tempo, cui di solito sono legati; ma possono diventare anche strumenti di tortura». Sono sue necessità compositive, «per conferire ancora maggior vita ai personaggi dei dipinti». Ma ammette pure che «nell’ultimo periodo, e quindi nelle opere più recenti, adotto meno questa caratteristica: sono più concentrato sui corpi e sulle loro metamorfosi, sul continuo divenire; anche sulle trasformazioni del fisico e dell’anima, che sovente divengono perfino deformazioni; almeno, nella mia pittura. Ora, compaiono perfino parti di animali: perché le trasformazioni umane possono essere addirittura bestiali».

Gli è accanto Pan, un barboncino di due anni e mezzo, «fido compagno delle passeggiate nei boschi: specie quello sacro di Villa Savorelli, accanto all’anfiteatro di Sutri», perché, nonostante quanto si potrebbe arguire dai suoi quadri, agli animali tiene parecchio. Spesso, però, si accontenta di appena pochi passi: in pratica scende da casa, per ritemprarsi nel piccolo museo del luogo. «In questo periodo, mi guardo spesso l’Efebo, una statua di bronzo alta quasi un metro, bellissima e scoperta a inizio Novecento, tornata a casa in prestito: di solito, nemmeno esposta al Museo nazionale romano: un autentico peccato, no?». La scultura fu pagata 15 mila lire d’allora a chi la rinvenne e al proprietario del fondo; la studiò un celebre esperto, Roberto Paribeni, ed è stata accostata all’Apollino degli Uffizi, che magari deriva da un’ispirazione di Prassitele. A parte questi e altri rari svaghi, normalmente la sua giornata è lavoro: «Nel periodo in cui dovevo concludere i quadri per la mostra romana a Palazzo delle Esposizioni, mi ero dato una sorta di orario da ufficio. Mi alzavo alle sette; al lavoro dalle otto e mezzo; un panino per pranzo; riprendevo alle 15, ed ero capace di fare le ore piccole, di proseguire anche dopo cena, fino a notte fonda. Il lavoro della sera, abitualmente, non lo vivo come un obbligo, ma come una facoltà, un piacere: se sto dedicandomi a qualcosa che “mi prende”, non riesco a negarmelo. Poi, magari, passo ore ad arricciarmi i capelli, a guardare e riguardare, per scoprire se sono, alla fine, veramente soddisfatto». Insomma, l’arte come canone di vita; il bello, anzi il sublime, come una religione.

Sparsi in casa, tanti libri, specie degli artisti preferiti: Gustave Moreau, Pieter Paul Rubens, Jean-Auguste-Dominique Ingres, Gustav Klimt, Giulio Aristide Sartorio, Pierre Paul Prud’hon, Frederic Leighton, Anne-Louis Girodet de Roussy-Trioson, Alma Tadema, con i più scontati Giovanni Francesco Barbieri, il Guercino, e Michelangelo Merisi, Caravaggio; un volumone su Michelangelo pittore. Nomi non sempre noti al grande pubblico, ma tutti abbastanza intrisi di belle forme femminili o di un’arte visionaria ed evocativa, di corpi in movimento, prevalentemente discinti. Ma per scegliere il “suo” autore, Ferri approda ancora più nel raro, nell’insolito, nel ricercato e nel raffinato: William-Adolphe Bouguerau, un francese (1825 – 1905), celebre appunto per i nudi e le composizioni mitologiche, ma anche per certi quadri religiosi; un nemico di Manet e degli Impressionisti, il primo pompier francese con l’onore di una mostra tutta per lui, una “personale”, anche se quasi non esiste neppure una sua biografia. Tra le poche opere non proprie appese alle pareti di casa («sono solo cose che mi piacevano, di solito trovate ai mercatini»), Roberto ha anche un disegno della sua Aurora; «ma l’ho realizzato io, copiandolo da un librone che gli è dedicato»; ovviamente, è una donna bellissima e languida, tutta veli. E molto di quanto ha alle pareti, perché l’occhio e la mente se ne abbeverino, assomiglia, in qualche modo, proprio a questo autore, assai bello da ammirare anche se respinto per due volte (1848 e 1859) al famoso e ambito Prix de Rome. Insomma, nella Capitale, c’è chi arriva, e chi non ci riesce.

Tra le tante, Bouguerau ha una particolarità che lo accomuna a Ferri: sapeva far convivere, alternandoli nella sua pittura, il sacro e il profano; ed è meno abituale che non si creda. Perché alcune tra le primissime opere di Roberto che abbiano avuto un proprietario sono state proprio delle composizioni religiose. Lui ha vissuto perfino un periodo da credente: «Da piccolo, facevo anche il chierichetto: ricordo ancora una grande Madonna di Fatima nella controfacciata della chiesa del paese. Poi, un giorno, prima che divenisse importante come oggi e si occupava ancora di beni culturali, ho voluto conoscere l’attuale cardinale Mauro Piacenza: sono andato a un convegno, e gli ho mostrato alcuni miei quadri. Gli sono piaciuti; mi ha proposto di provare a dipingere un’Ultima Cena; dopo, gliela ho regalata, e mi ha detto d’averla apprezzata. Di mio, in un convento di Genova c’è un Santo Ettore Vernazza; nel Duomo di Montepulciano, un San Giovanni decollato; e un San Sebastiano è stato esposto a New York». Non usa raccontarlo, ma questi santi e questi personaggi hanno spesso le fattezze dei suoi amici, che, a Roma, frequentavano l’Accademia di Belle Arti.

Per questo, non mi sono eccessivamente sorpreso quando, su scelta di Vittorio Sgarbi, si è trovato coinvolto, con la Via Crucis, nella vicenda della ricostruzione di Noto. La prima volta in cui il critico ne ha visto tre opere, è rimasto come folgorato: «E questo, chi è? Voglio assolutamente conoscerlo»; ce l’aveva di fronte. E quando poi i quattrini stavano venendo a mancare, inaspettato è apparso un prodigo fan di Ferri: Emmanuele Emanuele, con la sua Fondazione Roma. Roberto è un onesto e un puro; fino a sfiorare, talora, l’ingenuità. Per questa Via Crucis, aveva preparato dei disegni: pensati ed eseguiti, beninteso, a maniera sua. Li ha sottoposti a Francesco Buranelli, già direttore dei Musei vaticani e componente della commissione che sovrintende alla ricostruzione nella città siciliana. Questi, con educata fermezza non scevra tuttavia anche da qualche (forse) affetto, gli ha fatto presente che, in casi del genere, esistono delle regole, alquanto diverse da quelle che presiedono alla sua arte; c’è una ben precisa iconologia. I primi assaggi, gli sembravano troppo classicistici, addirittura un po’ anonimi; e i nudi erano un po’ eccessivi. Roberto è intelligente: ha prontamente capito. E, pur senza rinunciare ai suoi corpi svestiti, si è rimesso a disegnare. Lo fa benissimo: con una facilità – poiché parliamo del sacro – che sa quasi di miracoloso. Al secondo esame, i bozzetti non mostravano nessuna pecca; erano inappuntabili, e sono diventati i dipinti che oggi possiamo vedere; sono spariti anche gli originali “macchinari onirici”.

Il risultato che abbiamo sotto gli occhi, premia chi ha avuto l’intuizione di chiedergli proprio una Via Crucis: l’amore e l’odio (altrui) che convivono; l’estasi e il patimento; la bellezza e il supplizio; sembra una storia creata per lui. Ne è nato un insieme che sa essere addirittura poetico; sono le peripezie di un corpo in cui c’è già l’altissimo («Il Signore di ogni magnificenza deve qui morire con ignominia; colui che è la grazia e la salvezza del mondo viene messo in croce come un maledetto; a colui che è il padrone del cielo e della terra, si toglie la terra e l’aria; l’innocenza deve soccombere, e tutto ciò commuove l’anima mia. Ah, Golgota, funesto Golgota»: Johann Sebastian Bach, Passione secondo Matteo, n. 59, recitativo, su parole di Christian Friederich Henrici, detto Picaneder). L’anatomia dei corpi svestiti è studiata accuratamente: nessuno dei muscoli sembra irreale, o forzato. Il rispetto per la realtà procede di pari passo con quello dei dettami religiosi. La Via Crucis si sviluppa come un film. Ferri realizza una composizione scabra, quasi desolata: per certi versi, mi ricorda la pellicola con analogo titolo di Pier Paolo Pasolini: chissà se lui l’ha mai vista. La crea prima, sui (nuovi) disegni, poi nelle tele. Perché Roberto disegna da maestro. Una sera, dopocena, ha cavato un blocco di carta Fabriano e i gessetti; mentre conversavamo in poltrona, in brevissimo tempo ha eseguito un disegno né piccolo, né “vuoto”, senza pensarci troppo sopra; ora, se un pizzico d’autobiografia è lecita, lo ho appeso tra le cose care. Fin dal tratto con cui è vergato, la sua arte rifulge. Non perdetevi i disegni a Palazzo delle Esposizioni: vi è in essi il baleno della creatività, dell’ispirazione, di quello che gli antichi chiamavano il genio. Sarà un caso, ma un dipinto di Bougerau del 1898, una pensosa donna coperta di una camicia che si conserva al Columbus Museum of Art nell’Ohio, Stati Uniti, si intitola proprio Inspiration.

Per avere delle intuizioni, bisogna anche coltivare i pensieri. A parte il bagno, dove c’è un’anonima Nascita di Venere, annoto dei titoli in biblioteca: copertine di libri “vissuti”. Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello; Flaubert; Il piacere e Il fuoco di Gabriele D’Annunzio; di Baudelaire logicamente Les fleurs du mal; Manganelli; Edgar Allan Poe. Roberto è coerente: sono sempre autori che scrivono di visioni, misteri, contraddizioni; e c’è un po’ di Decadentismo, «perché a me piace parecchio». Per dipingere, lui ha bisogno di una sua intima spinta: non gli riesce troppo di farlo su ordinazione. Un personaggio famoso, con un’importante collezione di autori antichi, una volta gli ha chiesto un ritratto, quasi dettandogli i criteri per realizzarlo: «Ne è uscita una cosa fredda, assai poco mia; entrambi ne siamo rimasti insoddisfatti». Il committente del San Giovanni decollato, e si può capirlo, gradiva un abito che lo coprisse di più, e che avesse la barba: «Non ho detto di no; ma mi ero ripromesso che, se ci fosse stata un’ulteriore domanda di cambiamenti, avrei rinunciato al lavoro. Non riuscirei mai a dipingere ciò che qualcuno vorrebbe da me; davanti al cavalletto, vivo unicamente le emozioni che mi provengono dal di dentro; mi ritrovo immerso in un mondo separato dal mio quotidiano: ne prendo gli scorci, e lo rappresento».

Oltre a essere la protagonista di Nella morte avvinti, ormai la sua compagna è anche una Salomè e Maria in una Pietà. Ma nei quadri, compare spesso anche una coppia di amici, ballerini di Taranto: «Me ne servo per le pose più contorte: chiedo loro di danzare nudi per me, li riprendo e mi riguardo con attenzione, ingrandendoli, tutti i singoli fotogrammi del film che ho girato». Però, quando si imbatte in un volto o un corpo che lo attirano, non fa troppi complimenti: si propone, e chiede: propone di fargli da modelli; ha sempre agito così. Però, si rende conto di quanto è cambiato, di come procede la sua evoluzione: «Sei anni fa, in occasione di un’altra mia mostra importante, ero un altro, mi comportavo diversamente. Lavoravo soltanto di intuito: iniziavo, e poi procedevo quasi a occhi chiusi; oggi, magari percorro la medesima via, però lo faccio ad occhi aperti». «Sarò banale, ma di Van Gogh adoro soprattutto come concepiva l’opera, il tormento che provava mentre la realizzava. Dipingere è liberarsi da un’angoscia, da un assillo; è un supplizio che si concretizza in una forma. L’invenzione è qualcosa che ho dentro di me: nasce da una frenesia che è anche dolore, è anche star male; e dipingere è il bisogno di liberarsene, di sublimarlo, di tradurlo in posture e colori, di trascriverlo in un mondo dipinto». Come se fosse una sorta di terapia? «E perché no? Dal male dell’arte, non si guarisce davvero mai».

Fabio Isman